Il Papa a Gerusalemme, nel marzo del 2000, era già ferito e malato, e passo passo si avviò verso il Muro del Pianto sotto gli occhi stupefatti dei cronisti come un bianco monolite fatto di carisma e di determinazione, diretto al suo obiettivo micidiale: chiudere l'antisemitismo plurimillenario della Chiesa. Andò diritto e lento col suo biglietto in mano verso il Muro Occidentale sotto gli occhi stupefatti e increduli della gente ebrea a inserire un foglietto di carta bianca piegato in quella specie di posta diretta con Padreterno che sono le fenditure del Muro Orientale delle rovine del tempio di Erode prima che i romani lo distruggessero nel 70 dopo Cristo creando la diaspora ebraica; e fece quello che fa, in realtà, ogni ebreo che ci giunge. Scelse la sua fessura fra le pietre squadrate un migliaio di anni fa, e inviò il suo messaggio, accompagnandolo con un segno di croce per benedizione. Il contenuto era altrettanto rivoluzionario quanto il gesto: chiedeva perdono del male che la Chiesa aveva fatto a ebrei e mussulmani sia con le persecuzioni religiose sia con le imprese di conquista al tempo delle Crociate. (1)
Il viaggio era stato accompagnato da una valanga di punti interrogativi e di polemiche: in quell'anno il processo di pace già cominciava a declinare, nell'aria si respirava aria aggressività e conflitto, la paura che gli israeliani da una parte e i palestinesi dall'altra potessero tirare dalla loro parte la grande coperta papale si univa a forti preoccupazioni di sicurezza. Ci fu alla vigilia dell'arrivo di Giovanni Paolo anche una infelice disputa teologica messa in piedi dalla parte cristiana dei palestinesi che suggerirono ad Arafat una rivendicazione di un Cristo non veramente ebreo, ma in realtà «primo palestinese». Il papa se ne guardò bene, percorrendo anzi le orme di Gesù ebreo con identificazione, visitando le tracce visibili della sua carne o celebrandone la corporea tridimensionalità nell'orto del Getsemani.
Il viaggio, anche se non trascurò affatto la questione palestinese con la visita a Betlemme e al campo profugo di Deheishe mano nella mano con Arafat, fa soprattutto, nell'ambito della politica internazionale del papa, il completamento del suo messaggio sul popolo ebraico: fine delle persecuzioni, fine dell'antisemitismo, fine della considerazione dello Stato degli ebrei come di uno stato anomalo, teologicamente stupefacente, politicamente imbarazzante. Fu la visita logicamente susseguente a quella alla diaspora nella sinagoga di Roma e di suggello del riconoscimento dello Stato d'Israele. Un gesto rivoluzionario dal punto di vista teologico (2), perché poneva fine all'idea che l'ebraismo fosse superato e di fatto morto a fronte della novità storica e dottrinale del cristianesimo.
Dunque i tre giorni a Gerusalemme furono innanzitutto una pietra miliare teologica che ribadì il pensiero di Giovanni Paolo: egli, nell'espressione «fratelli maggiori» aveva spiegato al mondo cristiano gli ebrei come oggetto di suprema vicinanza, di rispetto culturale, teologico, direi dinastico, e anche di amore familiare. Insomma, tutto il contrario del tradizionale disprezzo teologico che aveva portato alle persecuzioni di cui il Papa portava i segni nella sua memoria polacca.
Questo non vuol dire che in nome delle altre scelte di fondo della sua politica estera in quegli anni come la difesa dei poveri, la simpatia per il Terzo Mondo e per le rivendicazioni di indipendenza, il tentativo di aiutare i suoi cristiani in un mondo mussulmano tendenzialmente ostile, il papa non si spingesse fino a Deheishe uno dei campi profughi più militanti con 16 morti nella prima Intifada, per stringere la mano ai palestinesi.
Si mostrò solidale con la loro sete di libertà e di benessere, ma evitò tutti i temi politici come Gerusalemme o i rifugiati. Però, al contempo ignorò la voce del Muezzin che cercò di coprire la sua nella piazza di Betlemme e scambiò saldi sorrisi e strette di mano con Arafat. Né il papa trascurò un altro elemento fondamentale della sua vasta politica internazionale che lo faceva dì continuo salire e scendere dagli aerei (3), quando al Santo Sepolcro incontrò di fronte alla lastra che aveva coperto il corpo di Cristo crocifisso i rappresentanti delle altre confessioni cristiane in genere intenti a strapparsi brani delle pietre del Golgota e della sua povera Chiesa spezzettata. Adesso stavano tutti là intorno, intorno del Papa già sofferente che baciava sulla lastra sepolcrale la sofferenza del suo modello, e che sempre di più lo sarebbe divenuto: il Cristo della Passione.
Ma più di ogni altra visita fu quella a Yad Va Shem, il Museo dell'Olocausto a lasciare senza fiato chi lo accompagnò, e la sottoscritta fra quelli, e il mondo intero. Il Papa era molto emozionato quando entrò nella sala della Rimembranza, si fermò a guardare per terra il nome del campo di concentramento di Lwow Deanowska, e poi quelli di Auschwitz, Sobibor, Treblinka... tragici luoghi di casa sua.
Il luogo è il segno, la santificazione stessa di Israele, poco distante dal centro della memoria sono sepolti i grandi della storia attuale d'Israele, Rabin, Begin... il Papa ha guardato dalla vetta della collina la Valle di ein Kerem dove nacque Giovanni Battista. All'inizio del saluto il Papa lesse il salmo che dice: «Sono diventato un rifiuto, la mente il cuore e l'anima sentono un estremo bisogno di silenzio». Nella semioscurità della sala si assiepavano zitti e attoniti gli ospiti, e fra loro tanti vecchi amici del giovane Woytila, polacchi che erano stati a scuola con lui. E dall'altra parte, l'accompagnava l'allora Primo ministro, il giovane Ehud Barak, che assieme a Giovanni Paolo accese la fiaccola della memoria. Mai, chi c'era, potrà dimenticare il papa circondato dai suoi vecchi amici polacchi ebrei alla fine della cerimonia, le fotografie, i nomi sussurrati fra di loro, nomi di gente che non c'è più: «Ti ricordi...». Sorrisi e lacrime di compagni della tragica avventura europea.
E, soprattutto, l'incredibile profluvio non di richiesta di scuse o di risposte a tali richieste, ma di pura affettuosità verbale e anche gestuale fra il Papa e Barak. ll giovane primo ministro fra lo stupore di tutti benedisse il vecchio pontefice (4): «Tu sia benedetto in Israele» gli disse. Come un vero fratello maggiore. E il Papa sorrise umilmente, benedetto dal suo vecchio giovane fratello ritrovato, il popolo ebraico in Israele.
Fonte: La Stampa del 3 aprile 2005 |
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(1) La Chiesa Cattolica Apostolica Romana è Santa, perché Santo è il suo Fondatore: è un'istituzione divina, è l'immacolata Sposa di Cristo. Soltanto gli uomini di Chiesa possono peccare e sono peccatori, ma la Santa Madre Chiesa no, non può aver peccato né peccare, essa è Santa. E di certo non può venire un Vojtyla qualunque, anche se Papa, a mentire spudoratamente chiedendo perdono del male che "avrebbe fatto" la Santa Madre Chiesa. In altre parole l'essere Papa non conferisce il potere di cambiare la realtà: la Chiesa Santa era e Santa rimane, le Crociate Sante furono e Sante rimangono. In ultimo c'è da dire che Voityla poteva chiedere scusa dei suoi peccati, e non di quelli altrui, pergiunta supposti tali.
(2) È più che risaputo che per un cattolico il termine "rivoluzionario" si carica di significati negativi, lo sanno di certo anche gli ebrei, ergo quello di Vojtyla non fu un bel gesto...
(3) Nella Bibbia si narra che Dio si servì di un'asina (Nm XXII, 23-33) per aprire gli occhi a Balaam, qui si serve invece della dotta e famosa ebrea Fiamma Nirenstein per farci capire il perché dei viaggi di Vojtyla: la sua vasta politica internazionale, non la conversione degli infedeli, anche perché la "conversione", per lui, era superflua dal momento che (secondo lui) tutti si salvano, qualunque sia la loro religione, e difatti (coerentemente) non ha mai voluto convertire alcuno e ha premiato con la beatificazione una Madre Teresa che non battezzava i bambini neppure in articulo mortis!
Si dice che GPII abbia fatto tanti miracoli, ma ha mai convertito qualcuno? C'è qualcuno che può parlare della pietà (raccolta, consapevole e riflessiva) della modestia (anche nel vestire) e del pudore (anche nel linguaggio) dei cosiddetti ragazzi del Papa? Erano bravi ragazzi alla Domenico Savio o, talvolta, volgari sporcaccioni? In cosa quel "santo" GPII li ha resi migliori?
Queste
son domande alle quali la supercelere commissione di beatificazione di GPII dovrà rispondere: agli uomini potrà mentire, ma a Dio no!
(4) Vojtyla ha mortificato in tutti i modi il Cristo che rappresentava:
Lui rappresentante del Dio Gesù si fece benedire da una sacerdotessa di Shiva, e dii gentium diaboli sunt!
Lui rappresentante del Dio Gesù, si fece benedire da un primo ministro ebreo, "come da un vero fratello maggiore", sì perché Vojtyla credeva di rappresentare il fratello "minore" Gesù !!!
Che grande santo!!! ma se i santi sono come Vojtyla, non li vogliamo, perché non ci edificano, ma ci scandalizzano e Gesù dice: "Guai all'uomo a causa del quale viene lo scandalo"! (Mt 18, 7)
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